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SONG |

Chiara Giannese: il collage digitale della surmodernité


a cura di Maurizio Di Leo

Dott. Storia dell’Arte

Il tempo è un concetto indefinibile e, per sua stessa natura, inafferrabile in poche semplici parole.

Probabilmente, proprio per queste sue caratteristiche, continua ancora oggi ad affascinare molti artisti, che tentano da sempre di capirlo, elaborarlo e restituirlo sotto una forma visiva.

Mariachiara Giannese declina il tempo nella sua ultima opera di video-arte dal titolo Song, nella quale il concetto di tempo assume un significato di stasi culturale in relazione all’umano, primo elemento percettivo di questo scorrere. Lo fa attraverso la novecentesca tecnica del collage di immagini, tecnica mista che abbandona il suo tradizionale supporto cartaceo per il moderno digitale: un assemblaggio di fotografie in movimento, nel quale sono inseriti pezzi di carne fluttuanti, come pezzi di ritagli presi da un flyer di supermercato e incollati sul B/W di scenari naturali.

L’idea è probabilmente quella di presentare una dicotomia di elementi, dello sfondo con il primo piano. Questi ‘filetti’ sono scontornati e non hanno profondità, contrastando per colore con il bianco/nero del paesaggio e attirando inesorabilmente l’occhio dello spettatore. Il contrasto di elementi è tipico del linguaggio dell’artista Giannese, che già aveva sperimentato con varie tecniche queste opposizioni sia in pittura, attraverso l’uso di vernici riflettenti e cangianti, che in un precedente lavoro di video-arte dal titolo Target, dove le geometrie fisse di un file rouge sociale collidevano con le forme umane.


Ritornando al suo ultimo lavoro, Song propone un altro carattere conosciuto della grammatica artistica dell’autrice che è il movimento, con il quale gioca tra veloce e lento. Anche in questo senso, Giannese crea un possibile freeze mentale nello spettatore, nonostante nell’occhio dell’osservatore si percepisca lo scorrere dell’acqua o lo svolazzare di una bandiera. Penso che la tecnica del B/W con un paesaggio ameno preso in un particolare momento della giornata siano volute per creare uno strano effetto di nostalgia, e di decadenza.

In tal senso, l’opera acquista un significato più complesso grazie alla canzone di sottofondo del gruppo Militia, il cui movimento lento e il testo del poeta irlandese sono atti a provocare nello spettatore un senso di abbandono e di solitudine.

È per l’artista quest’opera una metafora alla società contemporanea, ma come per la sua già citata opera Target, non si prefigge lo scopo di essere denuncia, ma una semplice presentazione di una realtà, in un modo che definirei tradizionalmente surrealista.


Le parole di fondo spiegano il collage: un senso di profondo smarrimento ed emarginazione dalla realtà sociale che circonda il protagonista. La sensazione di rovina è esplicitata nelle parole “Out here again and half undressed/Oh the start of my ruin was rissing early [Qui per la strada e mezzo spogliato/Così vicina era la mia rovina]”.

L’autrice usa dunque una palese metafora per spiegare la contemporaneità, ispirata dal lavoro di Marc Augé (Poitiers, 2 settembre 1935), che nel 1992 pubblica Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité [Nonluoghi. Introduzione ad un’antropologia della surmodernità].

Il concetto di ‘non-luogo’ è un neologismo introdotto dall’autore per definire una nuova tipologia di spazio umano, che non risponde alle caratteristiche tipiche dello spazio antropologico. Quest’ultimo è spiegato attraverso la complessità della ricca trama sociale, analizzata in senso culturale per il campo etnologico. Il luogo antropologico ha una sua concretezza, determinata visibilmente da tutti quei simboli di senso comune nel quale l’individuo si riconosce in un determinato tempo per un determinato spazio. Si delineano, così, un aspetto identitario, relazionale e soprattutto storico. Augé riflette sulle connotazioni che identificano le ‘città nuove’, gli spazi urbani come giovani situazioni che alienano l’individuo, smarrendo un’identità personale che è sradicata.


Il ‘non-luogo’ consta di milioni di persone che usufruiscono di uno spazio comune senza tessere relazioni fra loro. Augé lo percepisce come uno spazio prodotto dalla surmodernité, una super-modernità, che non integra l’elemento storico della società circostante, divenuto pure elemento fruito passivamente da queste identità che girano in questi luoghi secondo schemi precostruiti. Ecco che Giannese trascrive queste idee in Song con paesaggi di industrie, aeroporti, architetture in costruzione e spiagge turistiche, ma sempre con un senso di desolazione e avvilimento, accentuato a mio avviso dalle parole “the start of my ruin [l’inizio della mia rovina]”, ripetute con un ritmo che ha del tribale.

E mentre il video scorre, l’occhio dello spettatore cade incessantemente sui pezzi di carni adagiati su alcuni elementi del paesaggio. È un espediente da parte dell’artista di concretizzare visivamente ciò che Augé ha definito come “identità anonime”, ossia quegli utenti solvibili che occupano questi ‘non-luoghi’ rispettando un contratto che li decontestualizza come persone viventi e li trasforma in essere inanimati. Una semplice metafora, soprattutto esplicita, per contestualizzare una nuova società globale che usufruisce di servizi prodotti per eccesso di tempo, spazio ed ego. In relazione a quest’ultimo, è interessante sottolineare come l’autrice Giannese sia in grado di spiegare con i suoi già nominati elementi di contrasto visivo quell’opposizione interiore dell’uomo ‘surmoderno’, in bilico fra l’auto-valorizzazione esagerata di sé e l’anonimato nella collettività.

Dunque, questi ‘pezzi di carne’ sono per l’artista la rappresentazione ironica dell’umano, presenti nei luoghi deputati al benessere collettivo, ma allo stesso tempo assenti dal luogo stesso. Mentre infatti questi fluttuanti elementi morti sono esaltati dal colore, i paesaggi vivono una fredda scala di grigi in un tempo statico, che è ciclico e ripetuto, così come l’opera si apre con l’immagine di una lampada bluastra e si chiude con la stessa. Questa indica per l’autrice quello che Augé ha spiegato come la sensazione – io direi inconscia – di essere governati da un’entità superiore, dalla quale ognuno è inesorabilmente attratto.

La Critica: Benvenuto

TARGET |

Chiara Giannese: il bersaglio dell’individualità ingabbiata


a cura di Maurizio Di Leo

Dott. Storia dell’Arte

Con il termine target, la nota enciclopedia Treccani definisce il raggiungimento di uno scopo economico che un’azienda si prefigge, mirando a un determinato «segmento di mercato» (2012).

Già negli anni 30 dello scorso secolo, il sociologo e critico tedesco Walter Benjamin aveva affermato che la riproducibilità tecnica sottrae all’arte e al suo senso creazionista la sua aura magica (1935-1939). Largamente discusso, il saggio del filosofo tedesco è precursore di quel concetto di omologazione e unificazione determinato dai massmedia e di cui l’arte è ancora oggi testimone (Brian Elliott, Benjamin for Architects, 2011). È risaputo che sullo scadere del XX secolo, fu Andy Warhol a fare del ‘pop’ un suo cavallo di battaglia per interpretare il globalizzato mondo circostante.

I punti di partenza per comprendere Target di Chiara Giannese sono dunque i due aspetti dell’odierno: massificazione e il suo contrario, l’individualità. L’autrice delle opere ha espresso a pieno un elemento intrinseco di questi due caratteri del reale, ovvero la possibilità di un loro bilanciamento: l’individualità e la costante ricerca dell’essere originale diventano uno stereotipo, attraverso una rete di schemi. L’omologazione è per Chiara Giannese una serie di costrutti rigidamente incastrati in forme geometriche, segnati da un filo rosso intelaiato che bloccano l’immagine ‘elegantemente vestita di sé’.

Il continuo apparire dell’umano non è somma di caratteri liberamente scelti, ma comuni format che l’individuo prende dal sociale e addiziona, pensandosi originale. Il risultato è lo standard.


Così Target si trasforma in un video che vede protagonista l’artista stessa come in una performance teatrale. Esplica il movimento fatto di sovrapposizione di fotogrammi.

La ripetizione di momenti successivi è dunque la sua idea di tempo? In tal senso, si supererebbe l’idea pittorica di narrazione. Con molta probabilità, l’artista decide di descrivere una caricatura, per sottolineare al meglio l’idea di sovraccarico di individualità che creano ormai la nostra ammirazione per continui personaggi, che i massmedia proiettano da sempre.


Chiara ha probabilmente l’intenzione di presentare anch’ella la nota idea di caratterizzazione umana, che gli odierni mezzi di comunicazione veicolano con intenso potere endodermico. La sua figura, ora vestita e ora nuda, non si sottrae allo ‘schema rosso’ dell’intelaiatura, ma si muove all’interno di esso. Il braccio dell’artista tocca le geometrie, le supera e le accarezza. Ciò potrebbe suggerire al pubblico il pensiero di un apprezzamento dei luoghi comuni che ci costruiscono e ci direzionano, consapevoli di una nostra falsa illusione di libero arbitrio. È su queste note che si sviluppa il progetto di video editing che l’artista mette a disposizione del pubblico: grazie all’interazione di Arduino e Processing, lo spettatore è in grado di scegliere quando fermare il tempo attraverso la semplicità gestuale quotidiana della pressione di un pulsante. Ma la possibilità di bloccare una raffigurazione, impedisce davvero la curiosità di vederla? L’artista ha riaperto   inconsapevolmente una querelle spinosa: siamo davvero liberi di scegliere?

Elemento di nota è sicuramente la mancanza di uno sguardo del soggetto. L’artista ha evidentemente occultato gli occhi per poter descrivere il senso di omologazione, proponendo un personaggio descritto più nelle sue scelte d’azione che nelle sue caratteristiche fisiche. Escludendo il contatto visivo con lo spettatore, si sottrae una personificazione, e con essa un’individualità.

Target studia la luce. In uno scenario anonimo, la fonte luminosa nel video si muove con il soggetto, mutandone il senso estetico e accompagnandone la narrativa. Una mutevole luce per diversi scenari non è una scelta nuova nella poetica dell’artista, già presentata in un precedente lavoro pittorico dal titolo Emotive Experiece. Chiara aveva sperimentato un personalissimo linguaggio tecnico e pittorico attraverso la superficie riflettente della vernice. Parla, infatti, delle infinite possibilità di relazione tra colore cangiante e ambiente, permettendo al fruitore di avere un sempre mutevole dipinto dinnanzi a sé, relazionandolo all’idea dee cambiamenti emotivi determinati dal contesto sociale: la luce naturale accende e riflette i colori forti, mentre una luce artificiale fa riemergere un aspetto più cupo del dipinto.

Con Target la grammatica artistica di Chiara Giannese assume una diversa connotazione e dimensione, che si esprime soprattutto nel campo tecnico: non più affezionata alla tradizione pittorica della tela e del colore, ma alla forma più nuova della comunicazione artistica digitale. Non mancano però riferimenti concreti e tangibili al suo retaggio accademico, che oggi si traduce nei due pannelli in mostra. Quest’ultimi rappresentano la trascrizione di Target: individualità addizionate che si scontornano, ingabbiate in rigidi ‘schemi rossi’.


Discrepancy è la possibilità di trascinare le idee sopra citate su supporto digitale. Ancora una volta, ciò che si presenta è la somma di tutta la gestualità quotidiana e la definizione dell’essere nella sua omologazione. Senza la precisa volontà di creare un personaggio, l’artista decide di dare spazio al concetto di “discrepanza”, presentata come disaccordo temporale, definito in tre riquadri di diversa velocità narrativa.

È la prima scena che apre alla lettura con la presentazione di vita, fatta di accumuli di oggetti che definiscono caratteristiche individuali esterne. Il riquadro centrale punta invece alla simbologia: a detta dell’artista i bicchieri, forse nello specifico la trasparenza del vetro, dà la possibilità di rappresentare al meglio la fragilità dell’interiorità. L’attenzione dello spettatore, infatti, non deve andare al materiale del quale l’oggetto si costituisce, ma alla sua frammentazione, palesata a metà del video. Ecco dunque il capovolgimento narrativo che ci si aspetterebbe in un romanzo: la scena che era statica, quasi a fissare l’idea, ora si presenta veloce, in sincrono con il tempo accelerato dell’ultimo riquadro sulla destra. Dopo la ritualità degli oggetti, Chiara mette in mostra la padronanza che gli oggetti di mercato hanno sulle proprie scelte: la figura androgina cede allo schema gender imposto, e in concordanza con la seconda scena, rompe un’idea di individuo per esprimerne un’altra. Anche per quest’opera, l’artista tenta di sottolineare un punto di vista e non di denunciarlo, coordinando aspetto reale dell’individuo con i suoi concetti e idee: una rottura di un oggetto in vetro ha lo stesso valore di disaccordo fra le parti di vera volontà di essere e gli oggetti che ha intorno.

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Maurizio Di Leo

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